L’Associazione di volontariato culturale Carreum Potentia ODV si è data la missione di favorire la conoscenza, la valorizzazione, la promozione, nonché la salvaguardia del patrimonio storico-artistico della Città di Chieri e del Chierese e, inoltre, di mantenere vive le tradizioni popolari della città, perché elementi costitutivi della sua storia. In questa prospettiva, alcuni nostri soci hanno avuto l’idea di riportare in vita il galucio (pronuncia: galüciu), un dolcetto che è stato totalmente dimenticato. Fino agli anni ’60 del ‘900 era molto apprezzato da tutti i bambini di Chieri quando la mamma, all’uscita da scuola, li portava in panetteria a comprarlo. Rappresentava una merendina artigianale e genuina prima dell’avvento delle merendine industriali confezionate a lunga conservazione.
COS’È
Il galucio è un dolcetto a forma di galletto che in origine veniva regalato ai bambini nei giorni di festa e poi, nel tempo, è diventato disponibile giornalmente nelle panetterie. Era anche prodotto con forma di buata (bambola) o carabiniè (carabiniere). Si tratta di una pagnottella con superficie zuccherata (zucchero semolato semplice, oppure zucchero caramellato) realizzata con impasto di pane arricchito con burro e zucchero, il tutto cotto in forno a legna. Il dolcetto nella versione chierese non prevedeva l’aggiunta di uova. Secondo la memoria collettiva e soprattutto secondo quanto è riportato da panettieri e artigiani che hanno prodotto il galucio dalla metà del secolo scorso, il dolcetto era prodotto con l’avanzo dei ritagli dell’impasto del pane.
Il principio stava nel recuperare ogni parte edibile, evitando che venisse sprecata, utilizzandola poi per produrre un altro bene. Infatti, fino a metà del Novecento non era ancora presente nelle campagne e nelle cittadine di provincia quello stato di benessere al quale abbiamo fatto oggi l’abitudine. Perciò, ogni materia che fosse riutilizzabile, veniva recuperata. Della presenza diffusa del dolcetto, anche fuori dalle mura cittadine, e del suo apprezzamento presso i bambini, ne è testimonianza viva una poesia in dialetto piemontese scritta da chi, a metà del secolo scorso, era nell’età più adatta per apprezzarlo:
«Ch’em n’ancord mi – vrà sta ‘l sesantesingh -, l’ultima vira che hai tastà – a Muntaud turineis, an Fornas – ël galucio dòp che magna e parin – avio fait chëusi ij ghersin – Cola pugnà d’impast – e la goenavo. – Si che r’avio spetà – pamach mesa giornà – che ‘s la mangiavo con j’ jeui. – Peuj, peuj – col tochet butà ‘d trapòs – ficà se dioveur an forn – tut për nojait – e con na frisa ‘d butir e sucher – anvërtojà, sbërgnacà – che a-j dasio la forma d’un galucio.- Cò a j era ‘d pì bon – ëd sa galuperia cita! – E ciamovo poch a la vita, – antlora. Peri i disia mentri mè novod a rija – con en man en tòch – d’la fogassa ‘d Cher. – Ciorchi che bona …- numinà e carestiosa – fin che t’euri e faita – dl’istessa pasta – dël galucio!». Adriana Comollo, 1963-2011.
PERCHÉ IL GALLO
Il significato del gallo si perde nella notte dei tempi. Nell’immaginario collettivo la figura è associata all’annuncio del giorno che supera le tenebre. È il gallo che annuncia all’uomo che la notte è terminata e sta sorgendo il sole sul nuovo giorno: il buio della notte e le tenebre sono sconfitti. Per questo motivo il gallo è anche simbolo di risurrezione, cioè della nuova vita. Il gallo è anche il simbolo della predicazione, strumento nelle mani dei prelati usato per diffondere la via della salvezza; non a caso la figura di un gallo di latta spesso la si trova sulla cima dei campanili di alcune chiese, al punto che anche Nino Costa nel 1923, ne ricorda l’esistenza in una delle sue poesie (Ël galucio):
«An sla ponta dël ciochè j’è un galucio, caparucio, fàit ëd tòla piturà: tuta quanta la giurnà chiel a gira, chiel as vira da la part che ‘l vent a tira. Ël paisan d’an mes dla piassa, quand ch’a passa, minca tant a guarda an su, e a s-n-antaja – su per giù – come ‘l temp a varierà da la mira che ‘l galucio a l’è voltà – Col galucio fait ëd tòla l’è pa tant na bestia fòla: chiel a sa che a l’è sempre bin piassà col ch’as vira da la part che ‘l vent a tira, e, guardand da so cioché, chiel a vèd sël marciapè tanta gent, pien-a ‘d babìa ch’a jë smija, ch’a veul nen ch’a sia dla dita ma ‘nt la vita – gira ‘d sa, gira ‘d là – l’ha l’istess teoria dël galucio piturà».
Anche nella storia delle genti è presente sovente la figura del gallo. Ad esempio, fra le famiglie notabili della Chieri tre-quattrocentesca spiccano i Gallieri, signori di Santena e di Bressieux (Savoia). Nel loro stemma sono raffigurati tre galli con la cresta rossa. Lo stemma è affrescato nella Cappella dei Gallieri in Santa Maria della Scala di Chieri (Duomo) ed è anche scolpito nei capitelli della chiesa di San Domenico, dove si conserva anche la pietra sepolcrale di Giacomo Gallieri. Sempre in San Domenico è conservata la pietra sepolcrale della famiglia Maga-Gallo con inciso, oltre ad altri simboli, anche un vispo gallo. Nell’araldica la figura del gallo simboleggia il prode guerriero, sempre vigile e pronto alle armi, perciò è solitamente identificato con l’attributo: ardito. Ma il gallo simboleggia anche la vigilanza, il controllo, la vittoria sul nemico ed anche la salute. Dunque, donare un dolce di questa forma ad un bambino poteva rappresentare un simbolo benaugurante.
LA SUA DIFFUSIONE GEOGRAFICA
Il Piemonte è una regione che vanta un’importante tradizione dolciaria e di prodotti da forno. Il passaggio dal miele allo zucchero, che dà origine agli zuccherifici, si può far risalire a Camillo Benso conte di Cavour. È in questo periodo, la metà del XIX secolo, che si sviluppa la pasticceria casalinga e quell’attività che darà l’avvio all’industria dolciaria. Le prime torte alla nocciola appaiono nel 1880 a Murisengo, in un panificio che si trasformerà in pasticceria artigianale. È in questo contesto che nasce, soprattutto nel basso Piemonte, il dolcetto denominato galucio. Le tracce della sua esistenza si trovano soprattutto nel Monferrato, nel cuneese, con presenza in Alba e in Bra. Anche nella Val Varaita, nella Valle Stura e nell’alessandrino si trovano tracce di un dolcetto destinato ai bambini, seppure in questi casi si tratti di figure diverse: un bamboccio zuccherato, oppure di una bambola: la buata. Testimonianze di questa presenza giungono dalla stampa locale.
Il Corriere di Saluzzo, 5.11. 2015: «[…] antichi dolci, semplici ed essenziali, fatti con pasta di pane addolcita con miele o poco zucchero e cotti nel forno del panettiere, i cui nomi rievocano forme: bambin (bambino), cavagnin (cestino), galuciu (galletto)». Il Corriere d’Alba, 20.04.2015: «dal Gruppo Storico d’Alba [la menzione di] galuciu: focaccia con erbette di Langa». La Gazzetta d’Alba, 29.06.1994 che commenta un evento in programma nella città: «alcune nonne saranno alle prese con pan e tajarin, faranno galuciu e mate, dolci in uso quando le nostre nonne cuocevano il pane nei forni a legna […] Durante la sfilata si potranno gustare some d’ai e galuciu». Il Corriere di Moncalieri, 14.09.2010: «Al mattino abbiamo proposto la preparazione dei galuciu, antica merenda di questa zona (pane con burro e zucchero) – dichiara Carol Povigna, formatrice di Slowfood – i bambini, una trentina, si sono improvvisati chef». Il Corriere di Chieri e dintorni, 16.12.2022: «Sull’Armanach viene raccontata la storia del galuciu di nonna Menta (Clementina) con la ricetta per prepararlo. Il galuciu era una pagnottella a forma di gallo, che un tempo era creata con i ritagli di pasta di pane arricchita con uova, burro e zucchero e cotta nel forno a legna per essere regalata ai bambini nei giorni di festa».
La presenza nella nostra città nel ’900
Nel Chierese, in particolare nelle panetterie di Chieri, il dolcetto a forma di gallo è stato piuttosto diffuso. Una produzione che nel tempo è andata via via calando a causa di una costante diminuzione della domanda. Eppure, c’è stato un tempo, durante gli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, che il galucio era ben noto e riconosciuto dalla maggior parte delle persone, specialmente di quei bambini che frequentavano una scuola nelle cui vicinanze era presente una panetteria.
Infatti, era una pratica comune per le mamme che accoglievano all’uscita di scuola i propri bambini accompagnarli, mentre andavano ad approvvigionarsi del pane per l’uso quotidiano, a gustare il dolcetto, magari assegnando ad esso il compito di premio per il buon comportamento mostrato a scuola dal figlio. Nelle persone nate fra gli anni Cinquanta e Sessanta, e che hanno frequentato l’asilo o la scuola elementare Sant’Anna, è ben presente nei loro ricordi la Panetteria Rocca, situata a pochi metri dall’uscita della scuola in Via San Giorgio n. 1: il luogo di maggior frequentazione per acquistare il dolcetto. A detta di molti la panetteria produceva uno dei migliori galucio di Chieri con superficie caramellata; lo stesso dolcetto veniva realizzato anche a forma di carabiniè (carabiniere). La panetteria ha chiuso nel 1976.
La Panetteria Pasticceria Bertolone di Via Garibaldi 27 è stata fondata nel 1866 dal bisnonno omonimo dell’ultimo titolare della panetteria, Giovanni Bertolone, che ha condotto l’attività con la moglie Grazia fino all’anno 2000. Dall’iniziale panetteria del bisnonno, il padre Giacinto aveva ampliato l’attività con la pasticceria e da ultimo Giovanni aveva aggiunto la cioccolateria. Memorabili le sue creazioni tra le quali le uova di Pasqua finemente decorate, corredate con sorprese di qualità tra cui orologi, catenine d’argento di Valenza accompagnate da brevi poesie. Altrettanto famose le sue sculture di cioccolato su ordinazione, ad es.: la campana e la Chiesa di San Giorgio in occasione della visita a Chieri di importanti personalità religiose.
Soprattutto, la panetteria era famosa per i tanti di tipi di pane prodotti in varie forme, come ad esempio: fiori e grappoli d’uva, tiroline, lingue del Murè (un pane piatto di forma allungata), robatà, torcetti, prodotti di cioccolato, delizie del Murè: una sorta di praline che ricordavano i Cuneesi al Rum, la focaccia dolce e il galucio.
Secondo Giovanni Bertolone la focaccia chierese di un tempo, dalla quale deriva il galucio, era un prodotto umile, fatto di semplice impasto per il pane con l’aggiunta di burro e un pochino di zucchero (senza uova e senza altri ingredienti che alcuni artigiani utilizzano al giorno d’oggi). La sua focaccia, in particolare, aveva nel contorno delle pinzature e all’interno, a raggiera, vari tagli per far cuocere uniformemente l’impasto, così che assumeva l’aspetto di un ingranaggio. Anticamente la focaccia veniva prodotta, su prenotazione, due settimane prima dell’Epifania e fino a due settimane dopo. Nella focaccia veniva inserita una fava secca; chi trovava la fava doveva sottostare ad una penitenza (all’epoca c’era chi la nascondeva e la buttava sotto il tavolo per evitare la penitenza, oppure, chi la serviva, tagliava già le fette in modo tale da consegnare la fetta con la fava ad altri).
Il suo galucio aveva lo stesso impasto della focaccia: l’occhio veniva impresso con il dito, oppure, veniva inserita una mezza ciliegia candita per simularne la forma. Il padre Giacinto produceva il galucio ma il figlio Giovanni, una volta rilevata l’attività, ne aveva creata una nuova versione semplificando e modificando la forma che aveva chiamato “marziano”, anche se i clienti spesso l’avevano ribattezzato “polipo”. La nuova forma richiamava l’aspetto dell’extraterrestre del film La guerra dei mondi, del 1953, un individuo che aveva la testa di polipo e quattro tentacoli. Questo film era uscito al Cinema Chierese di piazza Cavour. Giovanni Bertolone aveva preso spunto dai manifesti del film che erano affissi alle staccionate di legno presenti nel luogo dove era stato abbattuto il vecchio Politeama Chierese di via Sant’Agostino, angolo via Marconi.
Un’altra testimonianza è confermata da un’altra famiglia di panettieri che per decenni è stata attiva in città: la famiglia Chiosso. La Panetteria Chiosso si trovava in via Vittorio Emanuele n. 18, dove ora c’è il negozio di articoli sportivi “Dino Sport”.
L’esercizio è stato aperto al pubblico fra il 1900 e il 1905 ed ha continuato la sua produzione fino al 1938/40 circa, periodo durante il quale la panetteria è stata ceduta ad altri artigiani. I loro prodotti speciali, a parte il pane, gli immancabili robatà e la focaccia, erano i torcettini e, soprattutto, i galucio che andavano a ruba tra i bambini di quel tempo.
La qualità della produzione della Panetteria Chiosso era di elevata qualità, al punto che la famiglia ricevette la medaglia d’oro nell’Esposizione Agricola e Industriale tenutasi a Roma nel 1911, un ambìto premio che attestava l’eccellenza nella produzione dei loro prodotti.
Il galucio era prodotto anche da molte altre panetterie, come la Panetteria Serra che negli anni Settanta del Novecento svolgeva la propria attività in via Palazzo di Città, angolo via Tana, un luogo che attraeva i bambini frequentatori dell’Istituto scolastico Santa Teresa, situato nei pressi della panetteria. Tra le specialità di Ilario Serra, coadiuvato dalla moglie Giuliana, c’era la focaccia dolce prodotta 15 giorni prima dell’Epifania e fino a 15 giorni dopo (ma senza la fava!). E poi la treccia dolce, le torte della nonna, le crostate ed anche il galucio (anche a forma di buata); questi ultimi non venivano caramellati ma pennellati con acqua e zucchero semolato. La ricetta del galucio e della buata era a base di pasta di pane con burro, un poco di zucchero. Questo dolce veniva prodotto tutti i giorni, veniva tagliato con la ras-cia (raschietto, spatola), poi era ricoperto di zucchero semolato e, come variante di produzione non aveva l’occhio. La panetteria Serra ha chiuso la sua attività nel 1999.
Un’altra panetteria che produceva il galucio era la Panetteria Pelottieri. Secondo Anna Maria, la figlia di Carlo, il titolare dell’esercizio dagli anni Quaranta-Cinquanta fino al 1987, le specialità prodotte oltre al pane e ai robatà, erano i torcetti, le trecce dolci, la focaccia il galucio e le buate. Il galucio e le buate, che erano prodotti a mano libera, cioè, senza stampo, andavano a ruba, al punto che le scorte finivano in fretta. In questo caso, i due dolcetti, che erano prodotti con un impasto simile o uguale alla focaccia dolce, venivano prodotti di pomeriggio assieme ai robatà; le loro superfici erano cosparse di zucchero caramellato e incise con righe a forma di rombo.
Anche la Panetteria Roffinella di via San Giorgio, attiva dall’inizio degli anni Sessanta alla metà degli Ottanta, produceva oltre al pane e ai robatà tagliati e stirati a mano, i dolci come i torcetti, la focaccia e il galucio che in questo caso era cosparso in superficie di zucchero caramellato.
Alcuni vecchi clienti si ricordano che il galucio veniva prodotto anche dalla Panetteria Rosso di Via Marconi (succeduta poi dalla Panetteria Baratella) e dalla Panetteria Gero di Via Vittorio Emanuele II (fronte Chiesa di Sant’Antonio Abate).
LA RICETTA
La ricetta è stata elaborata grazie alla memoria e all’esperienza di alcuni artigiani panettieri che hanno esercitato la professione per lungo tempo, ed inoltre, grazie ad alcuni nostri soci che, facendo tesoro dei suggerimenti ricevuti da costoro, hanno riprodotto il dolcetto, riportandone il gusto e la consistenza all’origine. Il risultato ottenuto è di aver riprodotto lo standard originale del Galucio ‘d Chér. La ricetta è contenuta nel Disciplinare di produzione che regola le modalità di produzione del dolcetto.