La “Trebbiatura” – Omaggio a Gino Monti (Ginu, la ligera)

Ritratto di Gino Monti, incisione di Gianni Demo.

Gino era un personaggio emarginato dalla vita sociale chierese, una ligera appunto (tradotto: uno che non aveva voglia di lavorare); lo si incontrava spesso in piazza Cavour, in via Marconi o in via Garibaldi, il quartiere in cui viveva con la sorella Rosanna. Proveniva da una famiglia disagiata che nella sua povertà aveva comunque trasmesso il gene della dignità e del rispetto a colui che è sempre stato riconosciuto come un “barbone” dalla nostra comunità. Di lui voglio raccontare un aneddoto, un episodio ritrovato nella mia memoria.

La mietitura del grano nell’aia era un momento importante della nostra vita contadina, parenti, amici e vicini si ritrovavano per fare squadra, aumentava lo spirito di aggregazione e di solidarietà, ci si aiutava a vicenda con uno scambio di mano d’opera. La festa coronava un lungo periodo di lavoro e l’attesa per quantificare il raccolto era snervante. Il giorno prima della trebbiatura arrivava in cortile la trafilatrice (‘l trafilun) su un cavalletto in legno con una manovella su di un lato, da un rotolo di fil di ferro si ricavavano dei fili tesi della stessa lunghezza con un’asola da un lato per serrare le balle di paglia (i fir-fer per l’imbaladoira); toccava a noi ragazzi confezionare centinaia di fir-fer per la trebbiatura del giorno dopo. Per noi ragazzi era solenne l’entrata in aia della trebbiatrice trainata dal trattore, che con la sua forza motrice (col curias ‘d curam) avrebbe manovrato l’intero sistema. Era il “Landini testa calda” un trattore epico indistruttibile; l’imbaladoira (cioè, la macchina che imballava la paglia) completava il sistema.

Foto che illustra il momento della trebbiatura.

Quando iniziava la trebbiatura del grano Ginu era lì, vicino al cancello; lui non osava entrare, aspettava che il padrone di casa lo chiamasse, se ne avesse avuto bisogno. Quando papà lo chiamava lui era felice, si levava il berretto di testa in segno di rispetto e tenendolo in mano si avvicinava a noi; lui non chiedeva elemosina, si offriva per dare una mano, per far parte del gruppo. Lui puliva il cortile con la scopa, portava da bere a tutti e beveva solo dopo che tutti avessero bevuto, era un gesto di rispetto. Ginu era felice, giocava e scherzava con noi ragazzi, si sentiva in famiglia e noi lo trattavamo come uno zio.

La trebbiatura si concludeva col classico pranzo, cena o colazione, era lo stesso; a volte si trebbiava di mattina presto, di sera tarda o di notte, comunque si concludeva sempre con una festa, tutti invitati intorno ad un tavolo per festeggiare, veniva sacrificato il gallo o l’anitra maschio (l’aggniun) e il vino sul tavolo era sempre il migliore.

Prima del pranzo tutti si lavavano in cortile, dalla fonte o in una serie di bacinelle poste in fila sulla panca, i bei ragazzi mettevano in mostra la loro prestanza, la loro bellezza e le ragazze offrivano loro l’asciugamano pulito accompagnato da un ampio sorriso di apprezzamento.

Anche Ginu era lì, papà lo aveva invitato a restare, a pranzare insieme a noi; stava in disparte, l’ultimo della fila; non accettava di lavarsi prima degli altri, aiutava nel servizio e solo quando tutti si erano lavati si levava la camicia, la sbatteva dalla polvere e si lavava accuratamente col sapone. Ci si sedeva a tavola tutti insieme, Ginu sedeva con noi, pranzava e beveva con noi. Era modesto, non si abbuffava, apprezzava la buona cucina ed il buon vino.

Per un giorno anche Ginu era come noi, non era una ligera, il lavoro di un giorno gli aveva dato la dignità che rende gli uomini tutti uguali, con una bottiglia di vino sottobraccio usciva dal cancello, felice di aver vissuto un giorno da uomo tra gli uomini, offrendo dignità e ricevendo rispetto.

Per Carreum Potentia, Carlo Bagnasacco

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