Le Ligère di Chieri

Foto di Luigi Roccati, l’autore di Barboni a Chieri (1971).

Anche Chieri, come tante piccole e grandi città, annovera nella sua storia un certo numero di barboni, chiamati da noi lingère o ligère. Il pittore e poeta chierese Luigi Roccati li ha ben descritti nel suo libro Barboni a Chieri (1971), con ritratti veloci e gentili, dando loro quella dignità che la società sembrava aver tolto. Ricorda che alcuni vivevano in piccoli tuguri, soli; altri abitavano insieme sotto il ponte del Nuovo, nell’unica delle tre arcate sufficiente per accogliere le loro poche e sudicie cose: coperte, giacigli, suppellettili. Stavano insieme, ignorati dagli abitanti, chiedendo cibo alle porte dei conventi.

C’era ‘l Baron, un tipo eccentrico e solitario che abitava al Murè; indossava una giacca stretta con le maniche che arrivavano ai gomiti e lasciavano uscire dei polsini unti, un paio di pantaloni tenuti alla vita da uno spago, scarpe enormi legate con corde. In testa una bombetta, alle mani dei vecchi guanti, sulla camicia una cravatta da cerimonia sporca di unto. Passeggiava tenendo sotto il braccio vecchi giornali, dondolando una canna da passeggio e canticchiando pezzi d’opera. C’erano Vìgiu e Panìl, due fratelli sfaccendati che lavoravano solo ogni tanto; sempre allegri, avevano un carretto con il quale portavano a destinazione i prodotti che gli ortolani del mercato di piazza Umberto affidavano loro. Ciò che guadagnavano lo spendevano in vino freisa e mezzi toscani. Dormivano dove capitava, anche sul carretto, ma avevano anche un giaciglio su a San Giorgio. C’era Feu lo strillone, con la sua grande e ispida barba, il viso sotto un cappellaccio, coperto fino alle caviglie da un lungo cappotto. Gironzolava nei dintorni del Duomo, vendendo le copie del giornale “L’Arco”, gridando a gran voce da un cortile all’altro; ogni tanto si fermava per riposarsi, faceva finta di leggere una copia del giornale e poi riprendeva il suo giro.

Foto di un vecchio seduto su una panchina.

E c’era Batista ‘ř ciclista, innamorato a tal punto della bicicletta che rubacchiava tutte quelle che trovava in giro, ma i vigili sapevano sempre dove trovarlo e quando lo prendevano lui li seguiva, allegramente, senza opporre resistenza.

C’era Berto, non proprio barbone ma spesso in loro compagnia; stonatissimo, cantava a squarciagola e si intrufolava dappertutto, soprattutto ai matrimoni, dove si scolava i bicchieri rimasti.

C’erano poi quelli più giovani: ‘l Biondìn e Bòrdin e Bertìn, ubriacone, litigioso che gironzolava camminando malfermo, ma non cadeva mai, tanto che lo chiamavano «la Torre di Pisa». Andava in giro in compagnia di un tizio più giovane, con il quale chiedeva la carità; camminavano uno dietro l’altro, poi ogni tanto si aggiungeva qualche altra ligèra e lui guidava il gruppo, composto da Stupìn, che camminava parlando da solo, Pertica, con la sua andatura dondolante, Flip‘l drit, seguito dalla sua cagnetta, e Trumé, un piccolo uomo tozzo che non si separava mai dalla gavetta e dal tascapane. Nel suo libro Luigi Roccati li definisce «il convoglio della miseria».

Lo scrittore conclude la sua opera raccontando che i barboni si dividevano in diverse categorie: quelli del “Monopolio”, addetti alla raccolta ed allo smercio delle cicche; quelli dei “Mercati e delle fiere” che «conoscevano (…) ogni trucco che potesse servire all’accattonaggio (…)» i quali, se nei giorni di fiera arrivavano barboni da fuori, facevano pagare loro una taglia. Infine, vi erano quelli del “Sabato”, che arrivavano numerosi dai dintorni; si radunavano il mattino presto in un punto stabilito, si dividevano le zone e a coppie andavano mendicando vicino alle industrie, ai laboratori degli artigiani; il tutto in mattinata perché bastava, e a mezzogiorno si ritrovavano per dividere il raccolto per poi tornare alle loro sedi.

Alcuni vecchi chieresi, oggi tutti passati a miglior vita, ricordavano anche altri personaggi, ligère o mendicanti o solo un po’ eccentrici o dementi:

Balìn, un facchino con il naso sempre rosso, fratello del marito di magna Majin, processato per una presunta violenza ad una donna; la Ciorgna dl Neuv, una donna di facili costumi, sorda, che abitava al quartiere del Nuovo; Còrèa, uno straccivendolo e venditore di sigarette di contrabbando a mezza Chieri, che girava per la città con una motoretta Ape stracolma di roba; la Linci, una vecchia che girava di notte ed esercitava pratiche di guarigioni e piccole stregonerie; la Lua, una poveretta che rubacchiava nei negozi; Mini fa ‘n saot (Domenico fa un salto), un povero demente compagno dla Crica che andava in giro a mendicare con un cane nero; chi gli dava un soldo gli chiedeva di fare un salto e lui lo faceva. C’erano Panada, un barbone un po’ scemo; Pelavachi, uno che vivacchiava rubando biciclette, durante la guerra i tedeschi gli avevano deportato la moglie e, disperato, l’aveva liberata lui; Sudor, pigro, che andava nelle chiese a dare un aiuto a scuotere il taschèt per raccogliere le elemosine.

C’era Rosetta dei cani, una vecchietta che abitava in un alloggio fatiscente di via Vittorio con i suoi sei, sette cani che la seguivano tutti insieme ogni volta che usciva di casa. E Luna, Tochèt (alias ‘l Zan), Falòciu, che uccise a coltellate un amico. Tutti personaggi che restano, nel bene e nel male, nei ricordi della nostra città.

Per Carreum Potentia, Rosanna Perilongo

Fonte: estratto da AAVV., Le ligère a Chieri, in Zibaldone Chierese, vol. 1, Chieri, 2012.

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